lunedì 16 gennaio 2023

Il silenzio delle parole di Lidia Loguercio - Edizioni "Il Saggio"

 



Il silenzio delle parole rappresenta il “tacere” di chi non trova più la parola dentro di sé e neppure la cerca. La letteratura esiste, però, come resistenza al silenzio, alla morte e il compito di chi pensa non muta, solo appare più difficoltoso interpretare nel proprio tempo il silenzio. La parola ha così l’arduo compito di “portare alla luce” di svelare ciò che è nascosto. Ciò induce a cercare nella parola “ciò che non è detto” e nel silenzio “ciò che è taciuto”.

Nel romanzo “Il silenzio delle parole” l’autrice, in una articolata analisi, prova ad interpretare il senso recondito insito nelle parole, definite “schegge di piume velate”, parole rivestite di silenzio, che rimandano al non detto, quasi emblemi di un lacerato dolore; coglie delle parole, poi, i riflessi nella fragilità umana, sempre presente ad ogni pietra miliare di passaggi o di calamità esistenziali.

L’autrice avverte la sensazione che illusione sia la vita invisibile, quasi un percorso verso “il nulla”; acuta è anche la sensazione di non essere nel posto giusto e che tutto sia estraneo e lontano, ma, poi, le è di conforto un aforisma che rammenta di Seneca(1): <“Entro i confini del mondo non vi può essere esilio di sorta: nulla, infatti, che si trovi in questo mondo è estraneo all’uomo”>. Pertanto la scrittura deve tentare di varcare i confini del mondo e anche - come dice in una sua citazione il filosofo Bataille(2) - essere <“ricerca di un impossibile”> e interpretare - secondo il filosofo Franco Rella(3) - il mistero, vale a dire <“l’ignoto che è in noi e fuori di noi”>.

Attraverso le pagine “si sgrovigliano” così i fili, cioè le numerose parole con l’arduo compito d’interpretare il silenzio, frutto di attese disattese, di una malinconia non sbiancata dal candore e sempre alla ricerca di una parete rocciosa eburnea, splendente di purezza a cui ancorarsi, come “La Scala dei Turchi” ad Agrigento, una falesia dalle peculiari forme, che ben rappresenta, nelle sue pieghe ondulate e dolci, nei suoi gradini, l’ascesa verso l’alto e il bisogno nell’essere umano di un riparo sicuro.

L’autrice esprime, attraverso le parole, sia quel malessere sempre presente nell’animo umano, dal quale traspare il disagio della condizione dell’uomo contemporaneo, errante, solitario e dolente, sia il rovente e silenzioso costo di quell’andare “à rebours”, vale a dire, “contro corrente”, e ne coglie le contraddizioni, il senso, la collocazione nel mondo e i fattori di crescita.

Nelle sue riflessioni sul vivere del nostro tempo l’autrice vede, infatti, un “essere” in ansia, vacillante, perplesso, un “essere” che trattiene il respiro, un “essere” che parla solo con se stesso, con il suo “Io” segreto, perché solo a lui può comunicare quello che pensa e confidare il suo travaglio interiore.

Di sicura salvezza è, pertanto, “la parola”, definita espressione di sensazioni del corpo, in contrapposizione a “l’idea”, espressione del pensiero, barlume che dipinge pennellate di colori, ora palesi e ora celate, ora appassionate e ora fredde o indifferenti. Il miracolo delle parole segue così un arcano percorso per condurre nei meandri dell’anima e consentire, ancora una volta, all’uomo di essere nella vita un figlio, che vive in bilico, tra il tentativo di chiusura di porte di accesso e l’apertura dei cancelli dell’anima: il che si traduce nel perenne conflitto tra razionalità ed emotività, tra ragione e sentimento.

Da qui la necessità di comprendere le difficoltà presenti e di porre strumenti atti al superamento e al sostegno, perché è nei momenti difficili, nei quali si è a tu per tu con il proprio “Io”, che l’essere umano cerca ciò che accende la luce, ciò che possa illuminare il mondo: senza la luce, non resta che il disorientamento e lo smarrimento.

<“Perché si ha paura del silenzio”>? - si chiede l’autrice -; poi, con tono pacato asserisce, come ipotesi, che: <“Il silenzio è la radice di tutto”>! Nel suo vuoto si ascoltano un centinaio di voci, ma soprattutto la voce del cuore e la voce di quello che si ha bisogno di dire.

In una visione di modernità legata all’idea di accelerazione, di omologazione dei modi di agire, di pensare, il nostro tempo ha visto il mutare del rapporto con la sofferenza, con il tempo, con la vita e con la morte. Il problema, quindi, non è difendersi dal “rumore bianco” con il silenzio, ma quello di trovare le parole che dicano anche il silenzio, che testimonino anche l’impossibilità di parlare.

L’anima respira, allontana, libera la paura e l’ansia, ma dentro trattiene le sensazioni di vuoto.

<“Non c’è nulla interamente in nostro potere, se non i nostri pensieri”> - dice Cartesio(4) - in una sua citazione.

L’essere, lungo l’iter della vita, assomma così dentro di sé il pensiero, un pensiero che è ricerca, anelito a comprendere, un pensiero proteso su più vie parallele: il pensiero sul passato, il pensiero sul futuro, il pensiero sul presente che, a volte, si sposa con un’emozione, si serve della parola aperta all’abbraccio teso verso il mondo, e, momento dopo momento, quando vive, scrive il suo dire che riempie il silenzio; nella misura in cui non vive, invece, si espone, più e più volte, all’annientamento, al nulla.

Saggezza si manifesta - dice l’autrice - quando l’essere umano mostra di saper accettare le sconfitte, di saper rinunciare a ciò che più si desidera, di sapersi distaccare, stoicamente, da ciò che opprime, se si è consapevoli, che ciò che opprime, siano esse passioni o cose tangibili, materiali, sia nocivo per il proprio equilibrio e sia lesivo della serenità interiore: solo così si può vedere ciò che è nell’animo, la sua vera essenza, vale a dire “il suo vero”.

<“Forse ai nostri giorni -dice il filosofo Michel Foucault(5) in una sua opera- l’obiettivo non è quello di scoprire che cosa siamo, ma di rifiutare quello che siamo. Dobbiamo immaginare e costruire ciò che potremmo essere”>.

Non c’è alcuna battaglia né da vincere, né da combattere, ma solo la consapevolezza di: “essere, per non perdersi, silenti, nel guscio di noce serrata”; di “scrivere, per non perdersi nel buio”; di “scrivere per attuare un risveglio dell’essere”, con segni chiari per una società diversa; di “scrivere per esistere”, avendo nel cuore una piccola goccia di candore, una goccia di innocenza pura, come quella di un bambino curioso in questo misterioso universo, angoli rimasti, dentro l’animo dell’autrice, segreti e celati in quel plasma fluido inarrestabile che scorre nelle vene.

Ciò che è andato via non può essere migliore di ciò che è rimasto. L’unico incanto esistente e imperituro è “l’implacabile immanenza” dell’attimo costituito dal passato, dal presente e dal futuro. Il silenzio richiede così un lungo percorso di scrittura di parole per essere interpretato e l’autrice diventa l’aria che l’opera respira, il silenzio che ammanta la parola, lo spazio bianco in cui questa si dispiega.

L’autrice

Lidia Loguercio

 


 

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