Successo personale del tenore napoletano, protagonista della Tosca celebrativa del 125° anniversario dalla prima, al teatro dell’Opera di Roma, che ha salutato il debutto sul podio romano di Francesco Ivan Ciampa, il quale ha donato belle intuizioni, in particolare nel secondo e nel terzo atto. Elogio al primo clarinetto Yoshua Fortunato e al primo flauto Enrico Macalli. Luci ed ombre in una regia firmata da Alessandro Talevi
Manon scende dalla carrozza e tace, Mimì chiede scusa e canta appena, ma Floria bussa alla porta della chiesa, chiama forte “Mario!” e lo chiama e lo richiama ancora, entra bella e altera, elegante, prepotente, diva sopra e fuori del palcoscenico, con un gran mazzo di fiori per la Madonna, si muove e si agita a suo piacere, fa domande su domande con piglio tra l’assurdo e l’impertinente. Il partecipato racconto di Angelotti, la generosa disponibilità di Cavaradossi e l’arrivo di Tosca che s’accavallano in sole nove battute di “Allegro vivo ed agitato” è l’inizio di un dramma senza sosta negli sviluppi musicali, con gli avvenimenti che precipitano verso la catastrofe e gli scorci lirico-poetici ridotti al minimo o rinserrati nell’azione. Niente di tutto questo abbiamo avvertito nel I atto, sul palcoscenico e in buca, nell’ultima replica della prima produzione della Tosca del 125° anniversario della prima del capolavoro pucciniano, al teatro Costanzi di Roma. Stesse scene ricostruite filologicamente, le campane originali, fatte costruire dallo stesso compositore, messe in spolvero per l’occasione, le tele trompe-l'œil, fatte ridipingere, da Carlo Savi, splendide quelle del secondo atto a Palazzo Farnese, i vestiti della Biagiotti, l’emozione di vedere Tosca come l’aveva voluta e vista Giacomo Puccini, ma….l’avversativa tradisce e cento sono le trappole in cui sono caduti un po’ tutti, a partire dal regista Alessandro Talevi. Un primo atto lento, che purtroppo è andato in scena praticamente senza prove, con tutti quei temi che percorrono la partitura, spesso diatonici, larghi, taglienti, gestuali, attoriali, su tutti quello terribile del barone Scarpia, che ne scoppia all’inizio, ambiguo, antimelodico e pressoché intrattabile, per toni interi, composto ad hoc per realizzare il ghigno del Diabolus, è stato tradito anche scenicamente. In primis da Tosca, Anastasia Bartoli, gettata in scena al suo debutto in questo ruolo difficile, che ha bisogno di grande carisma e assoluta padronanza della scena. La sua è una voce di grande rilievo, morbida nel registro centrale e limpida, in quello alto, di cui sentiremo parlare certamente e ampiamente, che ha svolto il compito correttamente, ma Tosca è ben altro e la Bartoli deve ancora trovare il giusto equilibrio tra tecnica e sentimento, per riuscire a creare quei momenti di grandissimo impatto emotivo. Il regista ha fatto il suo annullando quel senso di concitazione, di timor panico, ansia, sorpresa, già dal momento della comparsa dell’Angelotti, quindi, del colpo di cannone, dell’apparire di Scarpia, sino a quel Te Deum, che ha visto il barone defilato, non trasmettere assolutamente il suo pensiero in musica, la complessità e l'ambiguità del suo personaggio, che incarna una fusione di elementi opposti. Da un lato, il Barone, il capo della Polizia, rappresenta l'autorità oppressiva e la brutalità del potere, un simbolo di un sistema che sfrutta la religione e la burocrazia per mantenere il controllo. Dall'altro, la sua esperienza durante il Te Deum rivela il lato più profondo e disturbante: il suo ambiguo orgasmo suggerisce una perversione del sacro, dove la celebrazione della religione si mescola con il desiderio e la volontà di potenza. L'immagine del poverissimo popolo romano, quindi la presenza dei pastori, che si stringe ai piedi di un clero dominante richiama l'inevitabile oppressione che subiscono i più deboli sotto il regime di Scarpia, evidenziando la sua natura sadica e opportunista, e ancora, il baldacchino che sottolinea l'opulenza e il potere visivo della Chiesa, contrapposta alla miseria del popolo, creando quel forte contrasto tra sfarzo e arretratezza. La figura di Scarpia si colloca al crocevia di questi dinamismi, rivelando le tensioni sociali e culturali del periodo. La sua ambivalenza fa di lui un personaggio tragico, in cui la ricerca di potere si mescola a una profonda insoddisfazione e alla necessità di controllo, riflettendo le contraddizioni di una società in trasformazione. Tutto questo ha da avvertirsi nel finale del I atto, in cui il Barone, al quale ha dato voce Daniel Luis De Vicente è stato quasi del tutto coperto dall’orchestra e dal coro, che ha praticamente cantato schierato come in concerto, su di un palcoscenico ove ci si può permettere tutto, superbamente preparato dal Maestro Ciro Visco, che si è posto al servizio della bellezza assoluta della pagina e, in seguito, della cantata fuori scena. Il baritono non ha dato buona impressione dal punto di vista della “prestanza” vocale, né possiamo lodarne il fraseggio, le arti teatrali, l’uso di colori e sfumature, non essendo neanche scampato nella parte centrale di “Tre sbirri e una carrozza” in alcuni cali di intonazione e in alcune “incrinature” nell'emissione. Dinamiche che, purtroppo, sono state riscontrate anche nella lettura di Francesco Ivan Ciampa, il quale non avendo avuto modo di provare, si è dovuto adattare al cast e alle intenzioni musicali dei tre protagonisti, confezionando una esecuzione non poco imbrigliata. Ma il Maestro Ciampa resta una convincente bacchetta pucciniana e nel II e, in particolare, nel III atto è riuscito a donare alcune gemme, dopo il confronto tra Scarpia e Tosca, che scaglia il soprano tre volte sul do acuto, fino a quello cosiddetto della lama, preceduto dal Vissi d’Arte, che ha raccolto applausi, l’uccisione, le quattro fatidiche, impossibili P, procedendo con un lavorio di cesello con cui non ha disarticolato, ma è andato a cogliere infallibilmente la sintesi delle linee drammatiche, lasciando risultare dalla partitura il disegno drammaturgico, il suo respiro espressivo.
COME DA COMUNICAZIONE RICEVUTA
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