Successo per il
M°Jacopo Sipari di Pescasseroli
AL Gran Teatro di ŁódZ
Giacomo Puccini
TURANDOT
Una Turandot visionaria
Trionfo personale per il M° Jacopo Sipari di Pescasseroli sul podio del teatro di Łódź per questo titolo la cui visione del direttore ha avuto il suo punto culminante nel funerale di Liù. Orchestra magnetica quanto la Principessa di Gelo schizzata da Diana Axentii, il Calaf, Dominik Sutowicz e su tutti la Liù a cui ha dato voce Patrycja Krzeszowska. Regia è stata affidata ad Adolf Weltschek che ha risolto in equilibrio tra sfarzo e dinamicità.
L’ultima opera di Giacomo Puccini, condotta avanti con fatica in un clima di perenne incertezza e di sfiducia, testimonia una dolorosa crisi creativa, a partire dalla ricerca del libretto, tormento perenne, dopo la perdita della provvidenziale coppia Illica e Giacosa. Turandot è andata in scena al teatro dell’Opera di Łódź, in Polonia, firmata dal direttore Jacopo Sipari di Pescasseroli e dal regista Adolf Weltschek, con grande successo di critica e pubblico.
Nell’assenza di reale contenuto drammatico, quale avrebbe dovuto essere la trasformazione della principessa di ghiaccio in donna innamorata, il color locale, elemento collaterale di cui Puccini si era sempre giovato con abilità, diviene l’alfa e l’omega dell’opera. Tutto ciò non riguarda, ben inteso, la parte di Liù, la quale sta lì come pietra del paragone per mostrare cosa è veramente Puccini. Proprio da Liù è partita l’analisi visionaria del Maestro Jacopo Sipari di Pescasseroli, ispirata ad una schiava e ad un sacrificio “cristologico”. Grande attenzione da parte della bacchetta italiana alla partitura a partire proprio da quel “Signore ascolta”, dominato dall’intervallo di quarta giusta, l’armonia perfetta, contrapposta al tritono di Turandot, che fu del Barone Scarpia, passando per il gioiello dell’opera “Tanto amore segreto, e inconfessato, grande così”, seguito da quel “Tu che di gel sei cinta” pentatonica dove rispunta il Mi bemolle minore, la tonalità tragica dell’opera. Quindi, la marcia funebre, che è un lungo momento solo orchestrale. Per essere amore bisogna spogliarsi di tutto e Liù lo fa abbandonando anche la speranza. La marcia funebre diventa quella personale di Giacomo Puccini, tre accordi in pianissimo come non mai, sul filo diafano dell’ottavino, simbolo ancora di una Frozen Turandot, chiude nel silenzio di una commossa platea. L’opera potrebbe chiudere così, ma si sa tutti attendono il famoso finale secondo, il trionfo, con “O sole, vita, eternità, luce del mondo è l’amor”. Re maggiore trionfale per la favola che ha trasformato Turandot in donna, ma nelle battute finali l’attenzione di Sipari a quel pianissimo, che non è solo espediente fonico per il fortissimo finale, ma intendiamo pensarlo quale immagine dei tre accordi finali della marcia funebre, ovvero del sacrificio necessario per il lieto fine. Passionalità, slancio temerario e fantastico, capacità di dominare i dedali timbrici e le intricate trame armoniche per questa Turandot del secondo teatro nazionale polacco, dove riascolteremo il Maestro in Rigoletto. Un successo quello del direttore abruzzese, puntellato da un’ orchestra e un cast prestigiosi, a cominciare dalla frigida Turandot alla quale possiamo appiccicare tutte le etichette che vogliamo, dalla freudiana alla schoenberghiana, senza vietarci di osservare la casualità del rapporto. Splendida protagonista è risultata il soprano Diana Axentii, che ha tutti i numeri per fare l’ingrato personaggio di Turandot, la grinta, la voce d’acciaio e la altera presenza. Una principessa di grande mestiere, che conosce bene la vocalità di Turandot arrampicata di continuo sulle pareti di sesto grado di una tensione intervallare, su cui ha piantato i suoi esperti appoggi, a volte troppo metallici. L’esecuzione è andata in crescendo, in un senso di supremo equilibrio privo di qualsivoglia empito retorico, con un coro protagonista, diretto da Dawid Jarząb e Rafał Wiecha, unitamente a quello delle voci bianche preparato da Maciej Salski e Agnieszka Lechocińska che, in complesso ha offerto una bella prova per gli interi tre atti e in particolare nella parte vistosissima ma vuota di motivazioni interiori, con cui Puccini s’illudeva di emulare la realtà popolare della coralità nelle opere di Musorgskij. Grande sfarzo scenografico da parte del regista Adolf Weltschek, che ha risolto in equilibrio tra sfarzo e dinamicità, un palcoscenico sconfinato, una produzione che ha mirato a esaltare la magia della Cina imperiale e il "mistero" della principessa di ghiaccio, affidandosi totalmente alla forza evocativa della musica e a una messa in scena che ha rispettato le intenzioni originali, coerente, sapientemente ragionata, che ha suscitato nello spettatore fortissime emozioni pur adottando calibratissime movenze dei personaggi, e senza calcare la mano sul grottesco trio dei dignitari imperiali. Sul cast dei cantanti ha regnato incontrastata la voce di Patrycja Krzeszowska, una perfetta Liù: il filo pauroso della sua voce e dei suoi colori è giunto sino a noi distinto e singolarmente commosso da una lontananza che strazia, supportata da una recitazione fragile e stupita. Il suo canto, ricco di armonici, non ammette obiezioni. Dominik Sutowicz, è stato un degno Calaf, il quale ha ben sostenuto la parte con buon volume di voce e registro medio-grave, strappando gli applausi a scena aperta, per l’attesissimo “Nessun dorma”. Un Timur di buone risorse vocali si è rivelato Robert Ulatowski, così come anche per Krzysztof Marciniak, nei panni dell’Imperatore Altoum. Alle parti delle Maschere, hanno prestato le voci Ping (Arkadiusz Anyszka), Pong (Łukasz Gaj) e Pang (Aleksander Zuchowicz), molto graditi al pubblico. Hanno dignitosamente completato il cast Andrzej Kostrzewski (Mandarino) e il principe di Persia Wojciech Strzelecki. Platea entusiasta e diverse “chiamate” al proscenio per il Maestro Jacopo Sipari e l’intero cast.
COME DA COMUNICAZIONE RICEVUTA


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